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Il suo consolato | |
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Titolo originale | De consulatu suo |
Altri titoli | Sul consolato di Cicerone |
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Autore | Marco Tullio Cicerone |
1ª ed. originale | tra il 60 e il 55 a.C. |
Genere | poema |
Sottogenere | politico |
Lingua originale | latino |
De consulatu suo (in italiano: Sul proprio consolato) è un poema autobiografico, in parte perduto, scritto da Cicerone tra il 60 a.C. e il 55 a.C., durante il suo periodo di esilio.
Dopo aver sventato la congiura di Lucio Sergio Catilina ai danni della Repubblica, Cicerone dispose l'esecuzione di cinque congiurati, atto non perfettamente legale che in seguito gli costò l'esilio temporaneo.
Inizialmente il poema avrebbe dovuto essere composto da altre persone scelte dall'autore (il poeta Aulo Licinio Archia o il filosofo Posidonio); tuttavia, al loro rifiuto, Cicerone si arrangiò da sé.
L'opera, strutturata in tre libri, esaltava e celebrava le imprese condotte da Cicerone durante il suo consolato, in particolare durante il processo a Catilina.
Lo stile dell'opera è spesso ricco di parole ricercate e periodi ridondanti, dato che Cicerone colloca il suo periodo di consolato in un'atmosfera fantastica, mitologica e idilliaca. Tutto ciò è stato da lui concepito per esaltare al massimo la sua bravura. La narrazione è in terza persona, come i Commentarii scritti da Giulio Cesare, e vi sono numerosi riferimenti agli dei e ad aneddoti che hanno valore simbolico nei fatti.
Per tutta la sua vita, la preoccupazione costante di Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere (dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia.[senza fonte]
Il suo preteso desiderio che in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita, quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia, più che altro per l'assenza di una vera modifica nel tessuto politico e sociale della Roma del periodo.[1]
Cicerone fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta nella storia repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone auspicava che la concordia potesse durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere sentimentale ed economico.[2]
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