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Legge Pecorella | |
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Titolo esteso | Legge 20 febbraio 2006, n. 46, in materia di "Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento" |
Stato | Repubblica Italiana |
Tipo legge | legge |
Legislatura | XIV |
Proponente | Gaetano Pecorella |
Schieramento | Forza Italia |
Promulgazione | 20 febbraio 2006 |
A firma di | Carlo Azeglio Ciampi |
Abrogazione | 9 marzo 2006 |
Testo | |
Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana |
La legge 20 febbraio 2006 n° 46, meglio nota come Legge Pecorella dal nome del suo principale ispiratore, Gaetano Pecorella, è un atto normativo della Repubblica Italiana tuttora vigente in talune parti e che modificò alcuni articoli del codice di procedura penale italiano.
Nonostante la sua scarnezza (conteneva circa 10 brevi articoli), è una legge che ha suscitato ampi dibattiti e questioni di rilevanza sociale in ambito politico, nonché questione di tipo tecnico in ambito giuridico. Tale legge affermava l'inappellabilità, e la sola possibilità di revisione del processo in Cassazione (ossia con la presentazione di nuove prove), per le sentenze penali di assoluzioni.
Si trattava di un deciso rafforzamento del principio ne bis in idem, simile alla regola anglosassone del double jeopardy (cosiddetto divieto di doppia incriminazione; in common law i diversi gradi valgono come diversi processi, a differenza della civil law). Inoltre introdusse esplicitamente il principio garantista del "ragionevole dubbio" (in dubio pro reo, cioè presunzione d'innocenza fino a prova contraria).
Criticata dall'opposizione, che la riteneva una legge ad personam in favore di Silvio Berlusconi, fu rimandata alla camere dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che nutriva forti dubbi sulla costituzionalità di tale legge[1], una volta approvata è stata modificata svariate volte dalla Corte Costituzionale che ne ha rilevato il carattere incostituzionale in varie parti e che l'ha ridotta all'osso.
La Legge Pecorella, seppur in minima parte, è tuttora in vigore all'art. 428 dato che sono inappellabili le sentenze di non luogo a procedere, all'art. 606 c.p.p. in ordine ai nuovi motivi di ricorso per Cassazione e all'art. 533 (sentenza di condanna pronunciata solo se l'imputato risulta colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio).
La ratio principale della legge riguardava l'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento. In particolare andava ad abrogare, sostituire o modificare cinque articoli del codice di procedura penale, più leggere modifiche ad altri articoli.
«Art.593 Casi di appello 1. Salvo quanto previsto dagli articoli 443, comma 3, 448, comma 2, 579 e 680, il pubblico ministero e l’imputato possono appellare contro le sentenze di condanna. 2. L’imputato e il pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento nelle ipotesi di cui all’articolo 603, comma 2, se la nuova prova è decisiva. Qualora il giudice, in via preliminare, non disponga la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale dichiara con ordinanza l’inammissibilità dell’appello. Entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento le parti possono proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado. 3. Sono inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda»
La Legge Pecorella è stata approvata in Parlamento dalla coalizione di centro-destra del governo Berlusconi III dopo un duro scontro politico con l'opposizione di centro-sinistra. Se per la maggioranza l'intento di questo previsione normativa era quello di limitare la possibilità della magistratura di perseguire i cittadini in assenza di prove concrete o senza ragionevoli indizi, per l'opposizione la legge era soltanto una delle tante leggi ad personam in favore del premier Silvio Berlusconi e dei suoi problemi con la giustizia.
A favore si schierarono alcune organizzazioni di avvocati e la maggioranza adducendo, oltre alla ratio, indicazioni fornite dall'Unione europea.
Le critiche alla legge sono giunte, invece, da varie organizzazioni giuridiche europee, dalla Presidenza dell'ANM e ovviamente dalla parte politica avversa. In particolare si riteneva che questo provvedimento potesse favorire Silvio Berlusconi nel grado di appello di un giudizio nel quale era stato assolto in primo grado. A difesa di tale impostazione vari magistrati si chiesero perché in ambito civile era stato ampliato il potere di appello delle parti, mentre in ambito penale si andava in senso opposto. Così ad esempio fece lo stesso giorno dell'approvazione il presidente della Cassazione Marvulli.[2]
Anche il comico genovese e in seguito attivista politico Beppe Grillo ironizzò sul provvedimento legislativo, chiedendosi se successivamente il governo Berlusconi avesse intenzione di abolire l'intero codice penale, e avviò forme di protesta dal suo noto blog.[3]
Sin da prima della sua approvazione, la Legge Pecorella palesava evidenti aspetti di incostituzionalità e un suo futuro vaglio dinanzi alla Corte Costituzionale era pressoché scontato per tutti. Lo stesso presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi aveva rimandato la legge alle Camere per un momento di riflessione, esprimendo a suo parere dubbi sulla costituzionalità del testo normativo[4]. Nonostante i dubbi del Quirinale, la legge fu approvata aggiungendo l'elemento delle nuove prove decisive.
In particolare le disposizioni della legge sembravano evidentemente in contraddizione con gli art. 111, sulla parità delle armi tra difesa e accusa nel processo, 3, sulla parità tra le parti nel processo e 24, sulla possibilità di ricorrere per tutti in giudizio, della Costituzione, così modificata nella riforma costituzionale del 2001.
Altri ambienti giuridici sollevarono questioni tecniche sulle previsioni normative, spesso definite di bassa qualità. In particolare, la legge prevedeva la possibilità di appellare sentenze di proscioglimento solo in caso di nuove prove sopravvenute, ma senza definire quali prove. In caso di irrilevanza delle nuove prove la legge taceva se il giudice d'appello, ad esempio, non dovesse procedere o dovesse valutare di nuovo sulle vecchie prove.[5] Suscitavano dubbi anche le previsioni relative alla parte civile, epurata dalla richiesta al PM, che non era tuttavia legittimata ad appellare. Anche il noto giurista Franco Cordero palesò senza troppe velature nel suo apprezzato manuale di Diritto Processuale le varie stroncature che portava la legge, rendendo il contraddittorio mai visto così monco e un giudizio così poco sicuro. A preoccupare Cordero era anche la possibilità che ipotesi di mal jugé fossero completamente bloccate in caso di proscioglimento che non fosse determinato da prove.[6]
Altra parte della dottrina e dell'ambiente giuridico sosteneva che in realtà era l'appello proposto dal PM come concepito prima della legge Pecorella ad essere incostituzionale, in quanto non formato nel totale contraddittorio con l'altra parte come previsto dall'art.111 al comma 5º. A questa impostazione gli oppositori, portando gli esempi del caso del giudizio abbreviato o delle prove irripetibili, rispondono appoggiandosi anche alla sentenza n.32 del 1992 della Corte Costituzionale, che tale parametro non è un valore soggettivo bensì oggettivo limitato al momento della formazione delle prove. Prove che se sono, ad esempio, irripetibili non vengono formate in appello.
Numerosi dubbi logici erano poi evidenti: perché consentire al PM la possibilità di appellare in caso di condanna qualora lo stesso avesse effettivamente chiesto una condanna peggiore, quindi con poca discrasia tra richiesta e sentenza, e invece negare tale possibilità qualora richiesta e sentenza siano diametralmente opposte? Questo spunto di riflessione creava una notevole antinomia con l'art.469, allora e tuttora in vigore, che dà la possibilità di appellare al PM in caso di proscioglimenti anticipati.[6]
Dalla sua approvazione la Legge Pecorella è passata al giudizio della Corte di Legittimità Costituzionale svariate volte. La prima e principale è stata la sentenza n.26 del 2007, che basata sull'art.111 della Costituzione ha dichiarato incostituzionale la previsione per la quale il PM non potesse appellare le sentenze di proscioglimento.[7] La sentenza fu criticata per alcune scelte della Corte, anche da chi la riteneva giusta e fondata: non si capì soprattutto perché fu dichiarata incostituzionale la parte per il PM e non fu presa in considerazione la parte relativa all'imputato. Alcuni critici la etichettarono come una scelta politica e di classe a difesa della figura del PM, che non aveva neanche prima pari armi con la difesa in quanto poteva disporre indagini, intercettazioni, sequestri e richieste di misure cautelari.
La sentenza relativa all'imputato è arrivata un anno dopo, la n.85/2008, che riteneva incostituzionale la previsione anche per l'imputato di poter appellare in caso di proscioglimento. È da notare che una sentenza di proscioglimento per prescrizione non equivale ad una sentenza di assoluzione piena per insussistenza del fatto, almeno moralmente e socialmente.
La legge n.46 aveva introdotto anche il comma 1-bis all'art. 405 del codice di procedura penale, che obbligava il pubblico ministero a chiedere l'archiviazione ogni volta che la Corte di Cassazione si fosse pronunciata sull'insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza e non fossero stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico del sottoposto a indagini. La Corte costituzionale, con sent. 121/2009 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale anche della modifica in questione, per contrasto con gli artt. 3 e 112 della Carta.
Non fu invece toccata dalla Corte costituzionale la modifica all'art. 533, rimasta uguale a quella prevista dalla legge Pecorella.