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L'articolo 41-bis è una disposizione dell'ordinamento penitenziario italiano introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, che prevede un particolare regime carcerario. Per la rigidità delle prescrizioni carcerarie è anche noto come "carcere duro".
La disposizione venne introdotta dalla cosiddetta legge Gozzini, che nel 1986 modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354. In origine l'articolo 41 bis era composto da un unico comma:
«In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto.»
La norma aveva quindi una finalità preventiva nei confronti di situazioni di pericolo esclusivamente interne al carcere, come ad esempio la rivolta. Questa norma andava così a completare il quadro delineato dall'articolo 14-bis, anche esso introdotto dalla legge Gozzini, che prevedeva il cosiddetto "sistema di sorveglianza particolare", un istituto applicabile a tutti quei detenuti ritenuti pericolosi a causa dei loro comportamenti all'interno del carcere. Il testo è tuttora immutato dal 1986, complice anche il fatto che questa particolare norma, contrariamente a quella sotto descritta, in realtà non ha praticamente mai avuto alcuna applicazione.
In seguito nel 1992, dopo la strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone, all'articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge n356 del 7 agosto 1992. Il testo è stato poi modificato a più riprese, in particolare la variazione più incisiva fu nel 2002, quello riportato di seguito è l'originale:
«Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresì la facoltà di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1 dell'articolo 4- bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.»
Con la nuova disposizione, in presenza di "gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica", si consentiva al Ministro della giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell'ordinamento penitenziario, per applicare "le restrizioni necessarie" nei confronti dei detenuti condannati, indagati o imputati per i delitti di associazione per delinquere di stampo mafioso, nonché i delitti commessi per mezzo dell'associazione o per avvantaggiarla. L'obiettivo del legislatore era impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio. Pertanto in questa seconda ipotesi la ratio è prevenire situazioni di rischio esterne al carcere; in uno stesso articolo il legislatore ha quindi disciplinato due fattispecie diverse per quanto concerne i contenuti, i presupposti e lo scopo.
La misura introdotta da questo secondo comma originariamente aveva carattere temporaneo: infatti la sua efficacia era limitata a un periodo di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione. Tuttavia fu prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Il 24 maggio 2002 il Governo Berlusconi II deliberò un disegno di legge di modifica degli articoli 4-bis e 41-bis dell'ordinamento penitenziario, poi approvato dal Parlamento come legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), abrogando la norma che sanciva il carattere temporaneo di tale disciplina rendendo il "carcere duro" un istituto stabilmente presente nell'ordinamento penitenziario. Fu previsto inoltre che il provvedimento ministeriale non potesse avere valenza inferiore a un anno né superare i due anni, con eventuali proroghe successive di solo un anno ciascuna; infine il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione. La legge 15 luglio 2009, n. 94 ne ha cambiato di nuovo i limiti temporali, tuttora in vigore: il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna. Secondo le nuove regole i detenuti possono incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età, ma resta il divieto alla detenzione di libri e giornali, tranne particolari autorizzazioni.
La norma prevede la possibilità per il Ministero della giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.
Il comma 2-quater dell'art. 41-bis prevede che «i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione» siano «ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto…». In tal modo è stata recepita dalla legge - e, soprattutto, resa assolutamente inderogabile - la prassi seguita in linea di massima dall'Amministrazione penitenziaria, sin dai primi anni novanta, di allocare in apposite e selezionate strutture penitenziarie i detenuti in questione[1].
Il regime si applica ai singoli detenuti ed è volto a ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti a una stessa organizzazione all'interno di un carcere e i contatti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri.
I soggetti destinatari possibili della misura restrittiva sono puntualmente previsti dalla norma e possono essere solo coloro i quali si trovano detenuti per determinate fattispecie di delitti gravi, facenti spesso capo a contesti delinquenziali associativi, di matrice mafiosa o camorristica oppure di matrice eversiva o terroristica; la misura carceraria in esame serve a tentare di recidere i legami coi contesti delinquenziali di riferimento del detenuto[2].
Originariamente la legge non specificava tassativamente il contenuto del provvedimento del 41-bis, il che aveva portato la giurisprudenza a identificarne i limiti nell'articolo 14-quater dell'ordinamento penitenziario in forza di una lettura sistematica della disciplina. Questo orientamento rimane tutt'oggi valido ma solo per quanto concerne il 41-bis primo comma, che disciplina i casi di rivolta e le situazioni di emergenza interne al carcere.
Per quanto riguarda il comma 2, introdotto dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306 e con lo scopo specifico di stroncare possibili collegamenti tra il detenuto e l'associazione criminale di appartenenza, dal 2002 la legge specifica le misure applicabili:[3]
La Corte di cassazione, con ripetute sentenze, ha riconosciuto la legittimità della circolare del 2011 e della regolamentazione che essa prevede[4].
Il "carcere duro" è applicabile per taluno dei delitti indicati dall'articolo 41-bis della legge penitenziaria:
Il regime in 41-bis può essere revocato sostanzialmente in due ipotesi:
Fino al 2009 era inoltre possibile la revoca per opera dello stesso Ministro della giustizia nel caso in cui i presupposti che avevano giustificato il carcere duro fossero venuti a mancare, eventualità non più contemplata a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n. 94/2009.
Il tribunale di sorveglianza ha revocato l'applicazione della misura nei confronti di Michele Aiello[5], posto ai domiciliari in quanto sofferente di favismo, e ad Antonino Troia.[6] In entrambi i casi la presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili Giovanna Maggiani Chelli ha contestato la decisione.[7][8]
Il regime di 41-bis applicato per periodi molto lunghi, anche a persone non condannate in via definitiva, è ritenuto da alcuni giuristi come incostituzionale, ma finora le pronunce della Corte costituzionale ne hanno confermato, nell'insieme, la legittimità.
Nonostante ciò, nelle sentenze del 28 luglio 1993 n. 349., del 19 luglio 1994 n. 357., del 18 ottobre 1996, n. 351 (PDF)., e ancora con la sentenza n. 376. del 1997, la Corte Costituzionale si è espressa sulla compatibilità del regime 41-bis con i principi costituzionali. Già nella prima di queste sentenze, in riferimento alla funzione di rieducazione della pena, sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la Corte ha rilevato come ai detenuti venissero riservati "trattamenti penali contrari al senso di umanità, non ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non 'individualizzati' ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di reclusi selezionati solo in base al titolo di reato"[20].
Nel 2013 la Corte costituzionale ha inoltre dichiarato illegittime le limitazioni in materia di colloqui con l'avvocato difensore[21].
Senza dubbio l'aspetto più controverso dell'intero istituto è la conformità tra scopo dichiarato ed effettivo. Una componente importante della dottrina sostiene da anni che in realtà l'intento non sia affatto prevenire eventuali contatti con il crimine organizzato, ma piuttosto esercitare pressione sul detenuto al fine di indurlo a collaborare con la giustizia.[22]
In data 5 novembre 2009 il Ministro della giustizia Angelino Alfano ha reso pubblica la decisione del governo di riaprire le carceri di Pianosa e dell'Asinara, penitenziari nei quali sono stati storicamente detenuti i boss mafiosi in applicazione di tale misura.[23] Il ministro dell'ambiente Stefania Prestigiacomo ha invece annunciato che il carcere di Pianosa non riaprirà per motivi ambientali ma si studieranno soluzioni alternative.[24]
Tra le carceri italiane non sono più dotate di strutture idonee il carcere dell'Asinara di Porto Torres (SS), il carcere di Pianosa di Campo nell'Elba (LI), chiusi definitivamente nel 1998[25], e il carcere delle Murate di Firenze (FI), mentre quelle presenti sono ripartite sul territorio come segue.
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